(di Paolo Castrogiovanni)
Il concetto di tristezza vitale si riferisce a quella distinct quality of mood (qualità distinta dell umore) che il DSM-IV elenca nei criteri diagnostici dell’episodio depressivo maggiore con melancolia. Delle due la parola chiave non è certo il sostantivo tristezza, che è invero addirittura fuorviante, ma l’aggettivo vitale, che condensa in sé quel doppio binario di freudiana memoria (lo psichico e il biologico) su cui lo psicopatologo si muove quando vuole penetrare la melancolia.
È qui che va in crisi il ruolo dell’umore definito in termini psicologici nella patologia depressiva, dovendosi inesorabilmente recuperare la radice originaria (ippocratica) di umore inteso non tanto nella sua accezione psichico-spirituale, ma come matrice biologica pervasiva che di fatto identifica la vita stessa, giustificando così l’attributo vitale. È infatti quello dei sentimenti vitali lo strato strutturalmente coinvolto in quell’esperimento della natura (Binswanger) che è la vera melancolia, in quell’abisso della sofferenza patologica, sempre identica nel tempo, immutabile nel suo quadro formale, transoggettivo e transculturale, tale da giustificare l’ipotesi di una genesi endogena, una sofferenza penosissima, indefinibile e non descrivibile avvertita specialmente nel petto, nella fronte, nell’epigastrio, che varia durante la giornata con prevalenza al mattino (Gozzetti, 1996), fortemente agganciata alla ritmicità della natura, per la quale mai il malato userebbe il termine tristezza, ma piuttosto,riportando le penetranti espressioni di una malata di Gozzetti,un peso che grava sullo sterno, come un masso che preme producendo angoscia e disperazione, un peso totalizzante in un corpo che, al di fuori di ciò, è pressoché insensibile agli stimoli anche dolorifici. Una stanchezza eccezionale, o meglio un desiderio, un bisogno di immobilità, localizzata nella parte ossea del corpo come se questo avesse perso la funzione di sostegno. Un sentimento di stanchezza e mancanza di vigore che viene riportato a livello psichico come tristezza, per usare le parole di Schneider, una sensazione corporale che, nel suo fondamento biologico, non è influenzabile dagli avvenimenti e rimane invariata anche se i contenuti vengono rimossi (Weitbrecht).
Non è la tristezza da sentimenti dotati di intenzionalità; la matrice vitale è situata più in profondità, al di fuori di ogni individualità e soggettività (Borgna). È la più autistica delle psicosi (Binswanger), una prostrazione somatica che fa sentire la sua influenza anche sugli affetti, per nulla sovrapponibile alla tristezza puramente spirituale (Leonhard). La tristezza è un pieno, un troppo pieno : di dolore, di disperazione, di straziante lacerazione per una perdita subita, di emozioni intense, quand’anche negative. A differenza del lutto, in cui è il mondo che si è impoverito e svuotato e l’Io nella sua continuità storica ne subisce le conseguenze, la tristezza vitale è un vuoto e, in quanto tale, esperienza ancor più drammatica del pieno della tristezza, perché qui è l’Io stesso ad essere impoverito e svuotato (Freud). Una condizione in cui l’individuo, pur esistendo, non può più sentire il proprio esistere (Jaspers), fino all’essere del non essere del delirio di Cotard (Barison), una sofferenza che deriva dal nonpoter-essere-triste, un apatia patica. Chi può ancora essere triste non è veramente melancolico, e si può leggere la fine di una fase dal fatto che il paziente può essere nuovamente triste (Schultz), può poter provare una dolce tristezza liberatrice (Jacobson), essendo la tristezza un segno di vita.
La differenza strutturale fra tristezza e tristezza vitale riguarda la temporalità. Nella tristezza la struttura temporale è sostanzialmente conservata: cambiano i contenuti, intriso come è il passato di risentimento, rimpianto, nostalgia e di dis-perazione, preoccupazioni, remote speranze per il futuro, ma le tre istanze (retentio, praesentatio, protentio) continuano a coniugarsi. Nella tristezza vitale non sono i contenuti temporali a rivestire una centralità psicopatologica, ma il sovvertimento drammatico della temporalità, di uno dei pilastri portanti dell’esistenza, essenziale per la vita, in quanto la vita è in sé scorrere del tempo, declinazione dinamica del divenire, slancio vitale (Minkowski). Nella tristezza vitale, il passato (le inadempienze, gli errori, le colpe) e il futuro (fino alla sua conclusione nella morte) non sono più proiezioni (ricordi e previsioni) del presente, ma sono nel presente, dilatato a dismisura che, inglobando in sé passato e futuro, è stagnante ed eterno, negazione della vita. Il vissuto vitale del melancolico, nel blocco del divenire e nella dilatazione immobilizzante del presente, è sostanzialmente senza tempo, fuori dal tempo, atemporale, come la morte. In questa non temporalità tutto si annulla, in questa dimensione inumana, dove il tempo-vita è cancellato dal processo patologico, rimane il vuoto e l’esperienza di esso. Un vuoto che non è il vuoto del futuro, il vuoto del presente, il vuoto del passato, ma il vuoto dal passato, dal presente, dal futuro, che non esistono più come istanze temporali distinte. È il vuoto dal tempo, è il vuoto dalla vita.
Sviluppo storico .Se il termine tristezza vitale in quanto tale viene impiegato dagli psicopatologi del secolo scorso, a partire da Schneider, il concetto corrispondente è noto da tempo. La stessa concezione della melancolia di Ippocrate, facendo riferimento ad una discrasia di quegli umori sui quali si fonda la vita, sembra sottolineare la natura vitale della tristezza. Questa problematica era stata affrontata dagli psicopatologi del secolo scorso, accettando la stratificazione dei sentimenti di Scheler, che, al di sotto dei sentimenti spirituali (tristezza, scoraggiamento, beatitudine) e al di sopra di quelli sensoriali localizzati in parti del corpo (come il dolore), poneva i sentimenti vitali, che qualificano l’Io proprio corporale nella qualità dei suoi stati, introducendo il concetto, ambiguo quanto accattivante, di vitale, riferito a sensazioni rivolte al corpo e in esso aventi origine, vaghe e diffuse, a matrice genericamente biologica. Ma, a ben vedere, il mutamento patologico che realizza la tristezza vitale della melancolia, il nucleo che distrugge l’esistenza minandone i pilastri costitutivi più che un cambiamento dell’umore quand’anche dei suoi strati più profondi è una riduzione drammatica dell energia vitale (dove vitale sta anche per vitalità oltre che per inerente alla vita), di quell energia che alimenta tutte le funzioni psichiche, trascinandole tutte nell’annullamento quando essa, per motivi endo-cosmici (Tellenbach), viene a mancare.
Che poi questo vuoto, questo collasso dell’energia vitale, porti reattivamente con sé una serie di sensazioni (comprese quelle ascrivibili all’umore), che vanno a comporre il quadro sintomatologico polimorfo della depressione, è insito nella specifica natura della psiche umana, che non può non vivere soggettivamente con le sue risonanze emotive e cognitive quanto le accade, endogeno o ambientale che sia.
Problemi aperti. Anche nei disturbi dell’umore, come nella schizofrenia, si potrebbe proporre la distinzione fra sintomi positivi e sintomi negativi. La negatività, verosimilmente primaria e ancorata alla nuclearità biologica del disturbo, sarebbe rappresentata dal vuoto, dall’atrofia dello strato vitale dei sentimenti, dalla tristezza vitale e altre negatività ad essa correlate (anedonia, rallentamento, ecc.). La positività, verosimilmente secondaria (quasi un movimento psicoreattivo), sarebbe l’espressione della risonanza emotiva (la tristezza, l’ansia) e dell’elaborazione cognitiva (la colpa, i deliri olotimici), moti inesorabili dell’umana natura, di fronte alla drammatica esperienza di annullamento rappresentata dalla nuclearità negativa. Il concetto di vitale, così come quello di endogeno, riveste valori molteplici che dovrebbero essere recuperati e sviluppati alla luce delle attuali conoscenze: un valore euristico, nell’ottica delle neuroscienze, che potrebbero prospettare gli inevitabili correlati biologici di così drammatici sovvertimenti endogeni e del mistero della loro ritmicità; un valore clinico, sia nel senso di operare diagnosi più articolate, sia nel senso di farmacoterapie più specificatamente mirate al nucleo del disturbo; un valore psicoterapico, frutto della migliore comprensione dei vissuti permessa dalle concettualizzazioni psicopatologiche.
Letture consigliate
Binswanger L. Melanconia e mania. Torino: Boringhieri,
Castrogiovanni P, Goracci A, Pierantozzi E. Per una ricerca della nuclearietà maniacale al di là delle dimensioni psicopatologiche. In: Cassano GB, Tundo A (a cura di). Lo spettro dell umore. Psicopatologia e clinica. Milano: Masson, 2008:
Gozzetti G. La tristezza vitale. Venezia: Marsilio,
Schneider K. Psicopatologia clinica. Firenze: Sansoni,
Tellenbach H. Melancolia. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore
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