Malattie che non vengono capite

“Queste sono malattie che non vengono capite”
Non è facile calarsi nella sofferenza e nella visione del mondo di chi soffre di disturbi d’ansia . Tant’è che uno dei tanti problemi – non certo l’ultimo – che angoscia chi è già angosciato dalla propria sofferenza patologia è rappresentato dalla quotidiana constatazione che “queste sono malattie che non vengono capite”.
L’ansia, pur nella apparente unicità di significato, è un universo che si sfaccetta in numerose modalità espressive. Ognuna di esse configura, dal punto di vista clinico, un quadro ben definito che si ripete, con aspetti strutturali costanti, in tutti i soggetti che ne sono affetti. E, nel contempo, ciascuna di esse costruisce un mondo particolare nel quale la persona ammalata è costretta a vivere, determinata, come sarà, dalle leggi, dalle regole, dalle norme che governano il disturbo stesso e, conseguentemente, l’esistenza di chi ne viene ad essere colpito. Le regole di questi singoli mondi “patologici” uniformano fra loro tutti i soggetti: non annullano le differenze individuali, ma certamente le nascondono, poiché, nei comportamenti e nei vissuti soggettivi, prevalgono gli aspetti relativi al disturbo su quelli relativi alla persona. E’ una diversa modalità di esistere, che niente toglie alla natura umana della persona, ma è sorretta da regole sue proprie, che difficilmente possono essere comprese riferendosi soltanto ad un criterio di analogia comparandole con le esperienze, proprie o di altri, che sono espressioni del mondo della “salute”. Se non si conoscono, e se non si accettano, queste regole, sarà impossibile avvicinarsi con comprensione a chi soffre di disturbi d’ansia, e sarà impossibile fornire loro un aiuto. Per “stare” con loro non si può prescindere dalla consapevolezza di queste regole e di questi comportamenti, altrimenti giudicati incomprensibili, strani, folli, oppure liquidati semplicisticamente come esasperazioni di stati d’animo normali, amplificati volutamente dal soggetto con chissà quale tipo di finalità, oppure non dominati dalla razionalità e dalla volontà.
Più che di un vademecum di comportamenti da tenere con questo o con quel soggetto affetto da un certo disturbo d’ansia è utile, e sicuramente preliminare, sapere come “funziona” il soggetto che cala, per sua sfortuna, in uno di questi mondi. Sono mondi a parte, vere e proprie modalità di vivere che non sono casuali o confuse o disorganizzate: nella loro natura, per quanto patologica, sono “perfette”, estremamente coerenti al loro interno, tali appunto da ripetersi quasi con monotonia in tutti coloro che presentano lo stesso disturbo, seppur con variazioni individuali relative ad alcune situazioni o contenuti specifici.
Avviciniamoci a questi mondi, e quindi a queste persone, con spirito sgombro sia da pretese di comprensione su base analogica sia da tendenze al giudizio e alla colpevolizzazione! Si può restare sorpresi, colpiti, costernati, di fronte a modalità di esistere così peculiari e al cambiamento radicale che esse determinano nella persona. E’ un cambiamento che soffoca e maschera le caratteristiche individuali alle quali si tende invece a far appello senza capire che il disturbo sovrasta la persona. Poco conta quindi, da questo punto di vista, che questi mondi siano in parte determinati da fattori biologici, in parte da fattori genetico-ereditari, in parte da fattori acquisiti, in parte da eventi esistenziali, in parte dai contesti socio-ambientali.
Questi fattori riguardano le origini, ma il risultato finale è che,qualunque essi siano, comunque si viene a determinare quella costrizione nella prigione della patologia che ha regole che prescindono dalle cause. A chi cade in questa prigione, a chi perde così la sua libertà divenendo preda di una condizione che si impadronisce dell’individuo, ad essi bisogna restituire innanzitutto la libertà,prima ancora di addentrarsi nella, talvolta sterile, ricerca di cause la cui scoperta non necessariamente risolve il problema. E’ prioritario che il soggetto riacquisti la sua libertà, e quindi la capacità di determinare sé stesso, di usufruire delle proprie capacità razionali, di riconoscere i veri problemi, di cogliere i nessi realmente significativi dei vissuti patologici con la propria condizione umana e con l’ambiente.
Allora è prioritaria la cura. La cura ha lo scopo di far uscire il soggetto dal mondo della patologia per riportarlo nel mondo della sua normalità e della sua libertà. E’ soltanto in questa dimensione di riacquisita libertà che il soggetto potrà mettere in atto le risorse personali e potrà più validamente affrontare quei problemi che, interagendo con la eventuale predisposizione genetica, possano aver favorito la comparsa del quadro. Ognuno, il medico prima di tutto, ma anche il familiare, anche la persona comune ha il dovere di aprire gli occhi, di penetrare con consapevolezza questi mondi così diversi dal suo, di addentrarsi in essi sorretto dalla conoscenza delle loro regole; non certo per improvvisarsi psichiatra o psicologo o psicoterapeuta, ma proprio per dare, con la comprensione, una vicinanza vera a chi soffre e che spesso ha la sensazione di non essere per niente capito